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La notte del 7 aprile (o 24 marzo) dell’anno 1300, dunque a trentacinque anni di età, Dante si smarrisce in una selva oscura e intricata, impossibile da descrivere tanto è angosciosa. Lui stesso non sa dire come c’è finito, poiché era pieno di sonno quando ha perso la giusta strada: a un tratto però, mentre sta albeggiando, si ritrova ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi del sole. Questo, oltre al fatto che è primavera, gli ridà speranza e lo spinge a tentare la scalata del colle, dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena corso (come un naufrago che guarda le acque in tempesta dalle quali è appena scampato). Il poeta inizia quindi a salire la china del colle, ma con grande fatica e incertezza.
  
A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni), mi ritrovai per una oscura foresta, poiché avevo smarrito la giusta strada.

Ahimè, è difficile descrivere com'era quella foresta, selvaggia, inestricabile e tremenda, tale che al solo pensiero fa tornare la paura.
È così spaventosa che la morte lo è poco di più: ma per descrivere il bene che vi trovai dentro, dirò quali altre cose ho visto in essa.

Non sono in grado di spiegare come vi sia entrato, tanto ero pieno di sonno nel momento in cui lasciai la giusta strada.

Ma dopo che fui arrivato ai piedi di un colle, là dove finiva quella valle che mi aveva rattristato il cuore di paura, alzai lo sguardo e vidi la sua vetta già illuminata dai raggi del sole, che conduce ogni uomo sulla giusta strada.
 

Allora si placò un poco la paura che avevo avuto nel profondo del cuore, quella notte che trascorsi con tanta angoscia.

E come il naufrago che col respiro affannoso, gettato dal mare sulla riva, si volta e guarda alle acque pericolose da cui è scampato, così il mio animo, che ancora era in fuga, si voltò indietro ad osservare il passaggio che non lasciò mai passar vivo nessun uomo.
 

Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco, ripresi a camminare lungo il pendio deserto del colle, in modo tale che il piede più saldo era sempre quello più basso.
  
il rapporto tra Pasolini e Fanon
Il film La rabbia di Pasolini (1963) è famoso per aver sollevato critiche alla società borghese e alla sua indifferenza nei confronti della storia, della bellezza, simboleggiata nel documentario dalla morte di Marilyn Monroe e dal trionfo della cultura del rotocalco. Il presente articolo esamina altri aspetti presenti nel film quali il razzismo, il colonialismo, la lotta di classe e la decolonizzazione. Tramite un’analisi che trae spunti dagli studi postcoloniali, si scoprono due percorsi paralleli intrapresi da un Pasolini terzomondista e dallo psichiatra martinicano Frantz Fanon, i quali, partendo da una forte passione per l’Altro e l’Altrove, delineano entrambi un concetto di umanesimo che respinge l’ordine manicheo che ha diviso il mondo della Guerra Fredda in bianchi e neri, colonizzatori e colonizzati, padroni e servi.
 
Pasolini’s film La rabbia is famously known for having raised criticism on the bourgeois society and its indifference towards the history, the beauty, symbolized by the death of Marilyn Monroe and by the triumph of the society of the spectacle. The article aims to show other aspects in the film, such as racism, colonialism, class struggle and decolonization. Furthermore, through an analysis which involves the Postcolonial Theory, the article illustrates similarities between Pasolini and Frantz Fanon. Both intellectuals offer a ‘new humanism’ which rejects the Manichean order that has divided the world of the Cold War in whites and blacks, colonizers and colonized, masters and slaves.